28 febbraio 2006

Artemia




La signorina Artemia era sfollata a Cinisi, con la madre e la sorella Ortensia. La piccola casa di campagna, dove abitavano, era circondata da alberi di mandorlo e qualche ulivo.
Quella sera, mentre tornavano dalla messa, parlottando frettolose lungo il viottolo sterrato, s’accorsero d’un tratto che, da un mandorlo, s’erano levati improvvisi, con un gran batter d’ali, alcuni passeri scuri. Nel silenzio del crepuscolo, un fruscio gelò il sangue delle tre donne. Un giovane apparve e le fissò, con i suoi grandi occhi neri appena nascosti da un gran ciuffo di capelli scomposti. La madre voleva continuare la sua strada, ma qualcosa nello sguardo di lui la bloccò.
“Vengo dalle montagne, non trovo più i miei compagni partigiani, ero venuto a cercare mia moglie che non ho trovato, vi prego fate qualcosa non so dove andare” sussurrò veloce d’un fiato, lo sguardo velato. Al silenzio delle donne, il velo sugli occhi si trasformò in una lacrima, asciugata con rabbia sul dorso della mano. “ Ho fame” supplicò. Fu Artemia a intercedere presso la madre riluttante; era buio, adesso. Lo portarono nella loro casa. Nel cielo nero scintillavano miliardi di stelle. Lo ospitarono, nascondendolo, per più di un mese finché la guerra finì. Una notte, era uscito a fumare una sigaretta e una vicina aveva visto la sagoma di un uomo. Intorno alla casa di tre donne! Non lo denunciò, perché Artemia, interpellata dall’amica curiosa, s’inventò una storia. “ Per carità, non dite nulla a mia madre; è un giovane disperato e innamorato di me, viene a trovarmi di sera, perché mia madre, non vuole saperne di uomini, in questi tempi disgraziati!” Artemia salvò un partigiano, immolando la sua purezza, anzi, inventandosi d’averla immolata. Un amore impossibile e una decisione risolutiva.
Zia Artemia, cugina in secondo grado della madre di mia moglie, dunque da lei chiamata zia, negli anni seguenti divenne centralinista in un ospedale e rimase signorina. Piccola e magra , tacchi a spillo, vestiti colorati, si truccava in modo esagerato: labbra rosse e ombretto blu. Non si lavava mai con l’acqua, ritenuta forse inefficace, ma con l’alcool denaturato, lo spirito. Aveva preso, nel tempo un colore ambrato e la sua pelle era divenuta come la carta vetrata. Viveva con la sorella Ortensia, che non aveva lavoro. “Date un bacio a Zia Artemia” e i nipoti fuggivano impauriti dalla probabilità del tocco di quella pelle scura e ruvida.
In famiglia godeva di grande rispetto, perché era la zia, che in tempo di guerra aveva salvato un giovane partigiano ed aveva dedicato la sua vita al ricordo di un amore, mai esistito. Forse sognato.


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27 febbraio 2006

Chalkdust


Il gesso, polvere che riempie i miei polmoni, compone nel pensiero cornici stucchevoli e modelli di conoscenza. L’in/formazione diviene tale solo nella comunicazione. Occorre parlare con l’altro o con gli altri. Lo stucco si sgretola. Meglio con le altre, creature femminili, più adatte a sostenere urti e a ridarne. Scrivere non serve a nulla, occorre pubblicare. Pubblicare non serve a nulla, occorre scrivere. Occorre semmai un pubblico, un luogo, una divulgazione, una lettura. Paola, dalla chioma come spuma di mare, sa suonare le frasi. Incanta, con parole incomprensibili. Partiture di una sinfonia, in cui le interruzioni delle altre sono “contraltare” di “uno spettacolo complesso e mutevole”. Creano, nell’incompletezza, input. La pagina scritta è solamente un enzima. Dal suono alla metafora nessuno spazio assente. Continuità come un flusso di liquido caldo nella gola; un ‘cafè’, una tazza di cioccolata, un bacio a lingua saettante. Giovanna, studiosa montessoriana, sostiene che la metafora, storicamente, individua un livello comunicativo “superiore”. E che in ogni caso, non esisteva prima di Omero.
I cuccioli di scimmia, che giocano rotolandosi, sono una metafora di guerra per sopravvivere. L’adulto perde la metafora e sostiene la sua violenza per la sua personale sopravvivenza. La persona femminile, e posso definire con questa indicazione le creature che si riproducono, alterna lotta e ironia e dunque gioco. Per creature che si riproducono, non intendo le donne matrici, ma le donne che strutturano modelli di conoscenza condivisibili. Io credo che solo una mente comune e comunicante possa biologicamente produrre un probabile modello di vita sostenibile. Lo sviluppo occidentale è altra cosa, ha una matrice fissa, isterica e messaggera di stress e di contrapposizioni devastanti. Tra gli ingranaggi d’acciaio, perennemente in moto, una moneta sarà sbriciolata. La tribologia avrà bisogno di tempo, ma le ruote senza manutenzione, senza lubrificazione, andranno in obsolescenza. La consistenza di un’idea, la sua massa volumica, la sua densità si concretizzano nella comunicazione non verbale. Il suono delle parole muta il significato; è nei silenzi, del gruppo di persone che dialogano, che si fissano le assonanze e le dissonanze, ascoltate o dette. Sentire gli altri parlare mi dà grande fastidio, sentire gli altri fonare, mi rilassa. Cosa mi/ci resta di una pagina appena letta, di uno scritto anche faticoso: la meraviglia, il gusto, il sapore. Non il nome di un personaggio non i suoi patimenti o sbigottimenti, o i suoi pensieri, bensì lo svaporare d’un idea, che non va mai assolutamente condensato. Per lasciare spazio a...     altre altri altro.

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