25 novembre 2009

Arte di ricevere gli ospiti di riguardo

La vecchia signora aveva negli anni affilato l’arte di ricevere gli ospiti di riguardo e in special modo i parenti più stretti, che, nel suo immaginario, avevano il massimo della considerazione. I vincoli di sangue erano considerati fermamente i primi ed unici; veri e degni sia di considerazione sia di conferme continue.La tavola, perfettamente apparecchiata, in quel primo dell’anno, rifletteva l’uso, la consuetudine amabile ed affettuosa di sempre. Tovaglia di tela di fiandra bianchissima, con una lieve trama a foglioline quasi invisibili. I piatti bianchi del servizio di porcellana tedesca, posateria di acciaio inossidabile. L’argenteria da decenni stava nascosta sotto lastre di compensato, che inchiodavano il tetto dell’armadio a sei ante della stanza da letto. I tovaglioli messi dalla parte più candida. I bicchieri di cristallo, la fruttiera di vetro, piena d’acqua per l’uva; appena qualche traccia di croste calcaree su tutto, qua e là. Colpa della lavastoviglie, ormai annosa.. Tutto era perfetto. Cinque postazioni , due senza bicchieri. Che strano in tanta pignoleria !Gli ospiti della vecchia cara signora erano: la sorella svampita col marito affezionato, la nuora e l’amato figlio. Su un tavolino di radica coperto da tovaglia rossa, alcune ciotole e un pandoro senza zucchero, chiamato dall’adorabile signora, panettone. Nelle ciotole: lenticchie, funghi a fettine, piselli. Il tutto accuratamente lessato senza aggiunta di alcunché, né sale né olio né aromi. Sfumature di marrone e di verde scuro.Il figlio, un signore di bianchi capelli, si affrettò a compensare la negligenza dei bicchieri nei due posti, prima che la moglie (l’odiata nuora) se ne accorgesse. Si sedettero in tempo per assistere all’incastro della sorella da parte della vecchia signora che doveva mostrare quanta demenza avesse ormai conquistato la sorella ottantacinquenne, e quanto lei invece fosse ancora capace di gestire chiunque dall’alto dei suoi novanta anni. Orridamente compressa, con il petto schiacciato sul bordo del tavolo, dopo complicate manovre piuttosto deprimenti, la sorridente fu decorata di enorme strofinaccio per non sporcare la sciarpa di seta color grigio pesca, che adornava il collo di tartaruga. L’umiliata sorrideva, senza comprendere cosa le stesse accadendo.Finalmente giunse dalla cucina la vecchia signora, prima con una zuppiera piccola e poi con una grande. Aveva attentamente scotto un chilo esatto di pasta, una montagna. Che brava! Ben sapendo che la nuora e il figlio e il marito della sorella e lei stessa ne avrebbero mangiato solo qualche forchettata.Gli spaghetti erano annegati in un mare d’olio. La salsiera colma di sugo, che era colato sul piatto incollato sotto e sul pavimento e sulle dita della splendida ospitante, venne rapidamente deposta sulla fiandra bianca, decorandola di striature rossicce. Il figlio pensava: che meraviglia, così come tanti anni prima, come sempre, niente era cambiato nell’arte di ricevere della sua cara mamma. Perfetta come sempre! Ricordava la gioia di suo padre nell’essere trattato allo stesso modo. Suo padre veniva da una famiglia un po’ meno perfetta. Il povero essere, che aveva per tutta la sua vita matrimoniale sopportato ben altro, da nove anni giaceva nella tomba, rivoltolandosi continuamente. Ciascuno condì accuratamente con laghi di rosso sugo di pomodoro e con abbondanti cucchiaiate di un parmigiano grattugiato d’altri tempi. l vino bianco, Matheus evaporato, era accuratamente a temperatura ambiente. Il figlio si alzò per cercare nel congelatore del vecchio frigo in cucina dei cubetti di ghiaccio. Trovò dei fossili, ma, meglio questo, che il vino caldo. La vecchia signora strillava stizzita come un’aquila sorda: “Cosa fai in cucina?”. Il ritorno del figlio con il ghiaccio la calmò; per poco.La recita continuò con l’attesa della conclusione della nutrizione lenta della zia, guardata con occhi pieni di pietà e commiserazione della sorella e lo sguardo stanco del marito che non ce la faceva più. Si passò al secondo e ai contorni. Tre affarini strani e neri occupavano il centro di un gran piatto di portata deserto. Dovevano essere degli involtini di carne lessati, ancora stretti con abbondante filo di cotone . Il parco ripieno, un oscuro gambo di sedano e due zampette di carote marrone, era miseramente debordato: pietosi becchini. La zia sorrideva statica con gli occhi a palla, che un tempo erano stati azzurri, nel volto di tartaruga. Nei piatto si deposero lenticchie, piselli e funghi.Finalmente si passò al pandoro dal sapore di segatura. A conclusione la vecchia signora gridò “ E adesso la frutta !”. Due meline secche. Al figlio che, scherzando aveva menzionato ananas, fragole e melone disse con voce astiosa “A casa tua!”.


G.D.

Torna su

TORNA A ' PIDARTVINTAGE '




08 giugno 2007

Zia Mariolina



Da stanotte un altro pezzo della mia vita è svanito all'improvviso.Mi chiamava "Terremoto", mi ha fatto appassionare alle parole crociate, ai gialli mondadori, alla vita. Sorrideva ed aveva nella borsa delle caramelle, sempre. Zia Mariolina a 85 anni ci ha lasciato ma io la ricorderò sempre nella bellezza della sua gioventù. Con lei ho visto "Via col vento" almeno una decina di volte. A piazza Politeama a Palermo mi indicava la quadriga e i due cavalli in alto sul teatro e mi diceva "Guarda, ora cadono...ora cadono". Io pensavo che volavano verso il sole.
Nella camera ardente del Merry House il tuo corpo minuto occupa una piccola bara velata di una trina bianca coi volant. La camera è climatizzata. Mia madre piange china sul tuo volto sereno. Le palpebre sono abbassate sui tuoi splendidi occhi azzurri. Hai un vestito color pervinca, il colore che prediligevi, e le mani intrecciate sulla vita. Una camicetta bianca dal grande colletto merlettato e coi bottoni a sfere dorate rende meno chiaro il tuo definitivo pallore. Anche Guido piange. Lo hai lasciato solo con la sua vecchiaia e le sue malattie. "Ciao" Mara!
Il tuo corpo ha ricevuto le ultime infamie. Inchiodato in una bara di legno scuro non ha sentito il lezzo delle corone di fiori, nè il letargico effetto delle parole di un prete qualunque in una chiesa sconosciuta. Non amavi molto andare a sentire i riti ufficiali. Gli schizzi d'acqua fredda dalla maracas di metallo argentato non ti hanno causato l'ennesimo raffreddore. Non ha irritato la tua gola il fumo dolciastro dell'incenso. Desideravi la cremazione ma le tue sorelle residue non lo hanno permesso, i riti vanno osservati: ne va dell'onore della famiglia. Il fratello che hai curato per anni e anni non c'era alla tumulazione ma ti ha concesso il posto nella tomba a dodici posti, sei piani.
"Riciao, vespa!"


Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '

22 marzo 2006

La pagina di Amelia


Una vita dedicata alla musica.












Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '

04 marzo 2006

Il giorno degli gnocchi


Fuori una luce splendeva su tutto: il giardino, i balconi di fronte, le finestre chiuse. Nella cucina silenziosa, una figura si muoveva ansiosa: come fare, cosa fare, come dare significato ad un’esistenza noiosa. Le mani contratte ad artiglio nelle tasche mezze sfondate, lo sguardo perso di fronte agli sportelli verdi dei pensili: porte sigillate su mondi impossibili. Il professore cercava una via d’uscita, uno scopo.
Si ricordò della promessa e, trascurando di preparare lo schema della lezione del giorno dopo, si dedicò ad un’ attività manuale. Come sempre prevalse il bisogno di ricercare una guida sicura e la trovò, come ormai da tempo accadeva, non sui libri, ma su internet. Senza sapere che si metteva su una strada tracciata da altri e dunque pericolosa. Un chilo di patate e trecento grammi di farina. Sul frigorifero del balcone stava la retina con l’occorrente. Pesò accuratamente le patate alla bilancia elettronica : tre grosse e tre medie. Ne aggiunse una piccola, pensando allo scarto delle bucce. Riempì una pentola d’acqua e la mise sul fornello grande. Al solito, perse tempo per decidere quale manopola azionare. Contò fino a sette secondi, affinché la valvola di sicurezza desse il segnale all’accensione e rilasciò la manopola. Niente, i suoi secondi non corrispondevano a quelli del sistema automatico. Riprovò, contando fino a quattordici e finalmente le fiamme giallo- blu rimasero al loro posto. Mise la pentola sul fuoco con le patate dentro. “Chissà se si fa così o se dovevo aspettare che l’acqua bollisse” pensò. Avrebbe potuto chiederlo alla compagna della sua vita, ma dormiva e non volle disturbarla.

Pesò i trecento grammi di farina e attese che la cottura delle patate si concludesse, seduto in poltrona cliccando furiosamente il telecomando per mezz’ora. Pensava di non farsi catturare dalle pubblicità e dalle stupidaggini trasmesse. Non si accorgeva di essere stato ormai condizionato completamente e che il solo zapping era sufficiente a renderlo docile e insignificante. Finalmente pelò le patate bollenti , dopo averle scolate buttandole nel lavello. Si bruciava le dita e solo così si sentì vivo ed utile. Con lo schiacciapatate fece una collinetta di vermicelli morbidi e bianchi sul tavolo. Aggiunse la farina costruendo un picco innevato e impastò il tutto. Venne fuori una palla mollastra; ricavò dei cilindretti e col coltello preparò tanti piccoli gnocchi, passandoli uno per uno sui rebbi della forchetta. Aveva studiato bene il procedimento. Il pavimento si riempì di sbaffi bianchi e briciole di patate e anche i tre vassoi infarinati, col tempo, si riempirono di gnocchi. Era stanco ma soddisfatto, quella sera avrebbero avuto una pietanza speciale. La giornata proseguì pigramente e quando si avvicinò l’ora della cena, la moglie preparò un sugo di pomodoro, che profumava tutta la cucina. Il professore, orgoglioso dei suoi gnocchi, provò a staccarli dai vassoi ma…… quelli si sfacevano tra le dita, acquosi e appiccicosi. “Ma l’uovo ce l’hai messo?” sospirò la moglie.
“Nella ricetta non c’era!” rispose spazientito il professore, che riservava una fede totale nel mezzo informatico e nei suoi contenuti, dimenticando le variabili della natura. La donna intervenne con la sua pazienza e saggezza reale, aggiunse una quantità adatta di farina, l’uovo e confezionò dei veri gnocchi. Senza sbuffare ripulì tutto e, per la cena, diede al marito professore una lezione di ottimi gnocchi al pomodoro.

Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '


01 marzo 2006

La professoressa Gagliano




La nostra professoressa più amata era quella di francese. Si chiamava Gagliano e si muoveva molto lentamente, per la sua mole notevole. Vestiva sempre di nero; era la vedova di un misterioso marito, molto amato e scomparso da tempo immemorabile.
Era molto anziana e sempre sorridente, un viso dolce e dei capelli biondo-bianchi forse tendenti al giallo dorato, radi. Braccia e busto sottili poggiavano sul resto immenso.

Una piramide nera come l’ardesia della lavagna al lato della cattedra, su cui si arrampicava come scalando una montagna. Tutti in piedi, come ci eravamo disposti al suo ingresso, osservavamo, nel più assoluto silenzio, il suo issarsi fin sulla pedana ed il successivo incastrarsi nella poltrona dagli ampi braccioli. L’ansimare si calmava e finalmente, ad un cenno bonario della piccola mano, tutti seduti. Adorava Théophile Gautier e ci faceva leggere “Il Capitan Fracassa” in aula ad alta voce. Qualche volta gradiva che lo recitassimo. Con lei avevamo tutti anche più del sei, voto che nelle altre materie del liceo classico che frequentavamo, era un sogno spesso irraggiungibile.
Il mio ricordo è legato al giorno in cui venne in aula con una pennellata gialla di uovo alla coque, ancora sul mento. Scoprimmo, che i nostri professori erano esseri umani con una vita ed una prima colazione. Non entravano dalla porta, esistendo ogni giorno per noi e la porta, all’uscita, non li inghiottiva in un nulla vuoto e popolato solo da professori e professoresse. Questo avveniva nei lontani anni cinquanta.

Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '

28 febbraio 2006

Artemia




La signorina Artemia era sfollata a Cinisi, con la madre e la sorella Ortensia. La piccola casa di campagna, dove abitavano, era circondata da alberi di mandorlo e qualche ulivo.
Quella sera, mentre tornavano dalla messa, parlottando frettolose lungo il viottolo sterrato, s’accorsero d’un tratto che, da un mandorlo, s’erano levati improvvisi, con un gran batter d’ali, alcuni passeri scuri. Nel silenzio del crepuscolo, un fruscio gelò il sangue delle tre donne. Un giovane apparve e le fissò, con i suoi grandi occhi neri appena nascosti da un gran ciuffo di capelli scomposti. La madre voleva continuare la sua strada, ma qualcosa nello sguardo di lui la bloccò.
“Vengo dalle montagne, non trovo più i miei compagni partigiani, ero venuto a cercare mia moglie che non ho trovato, vi prego fate qualcosa non so dove andare” sussurrò veloce d’un fiato, lo sguardo velato. Al silenzio delle donne, il velo sugli occhi si trasformò in una lacrima, asciugata con rabbia sul dorso della mano. “ Ho fame” supplicò. Fu Artemia a intercedere presso la madre riluttante; era buio, adesso. Lo portarono nella loro casa. Nel cielo nero scintillavano miliardi di stelle. Lo ospitarono, nascondendolo, per più di un mese finché la guerra finì. Una notte, era uscito a fumare una sigaretta e una vicina aveva visto la sagoma di un uomo. Intorno alla casa di tre donne! Non lo denunciò, perché Artemia, interpellata dall’amica curiosa, s’inventò una storia. “ Per carità, non dite nulla a mia madre; è un giovane disperato e innamorato di me, viene a trovarmi di sera, perché mia madre, non vuole saperne di uomini, in questi tempi disgraziati!” Artemia salvò un partigiano, immolando la sua purezza, anzi, inventandosi d’averla immolata. Un amore impossibile e una decisione risolutiva.
Zia Artemia, cugina in secondo grado della madre di mia moglie, dunque da lei chiamata zia, negli anni seguenti divenne centralinista in un ospedale e rimase signorina. Piccola e magra , tacchi a spillo, vestiti colorati, si truccava in modo esagerato: labbra rosse e ombretto blu. Non si lavava mai con l’acqua, ritenuta forse inefficace, ma con l’alcool denaturato, lo spirito. Aveva preso, nel tempo un colore ambrato e la sua pelle era divenuta come la carta vetrata. Viveva con la sorella Ortensia, che non aveva lavoro. “Date un bacio a Zia Artemia” e i nipoti fuggivano impauriti dalla probabilità del tocco di quella pelle scura e ruvida.
In famiglia godeva di grande rispetto, perché era la zia, che in tempo di guerra aveva salvato un giovane partigiano ed aveva dedicato la sua vita al ricordo di un amore, mai esistito. Forse sognato.


Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '




27 febbraio 2006

Chalkdust


Il gesso, polvere che riempie i miei polmoni, compone nel pensiero cornici stucchevoli e modelli di conoscenza. L’in/formazione diviene tale solo nella comunicazione. Occorre parlare con l’altro o con gli altri. Lo stucco si sgretola. Meglio con le altre, creature femminili, più adatte a sostenere urti e a ridarne. Scrivere non serve a nulla, occorre pubblicare. Pubblicare non serve a nulla, occorre scrivere. Occorre semmai un pubblico, un luogo, una divulgazione, una lettura. Paola, dalla chioma come spuma di mare, sa suonare le frasi. Incanta, con parole incomprensibili. Partiture di una sinfonia, in cui le interruzioni delle altre sono “contraltare” di “uno spettacolo complesso e mutevole”. Creano, nell’incompletezza, input. La pagina scritta è solamente un enzima. Dal suono alla metafora nessuno spazio assente. Continuità come un flusso di liquido caldo nella gola; un ‘cafè’, una tazza di cioccolata, un bacio a lingua saettante. Giovanna, studiosa montessoriana, sostiene che la metafora, storicamente, individua un livello comunicativo “superiore”. E che in ogni caso, non esisteva prima di Omero.
I cuccioli di scimmia, che giocano rotolandosi, sono una metafora di guerra per sopravvivere. L’adulto perde la metafora e sostiene la sua violenza per la sua personale sopravvivenza. La persona femminile, e posso definire con questa indicazione le creature che si riproducono, alterna lotta e ironia e dunque gioco. Per creature che si riproducono, non intendo le donne matrici, ma le donne che strutturano modelli di conoscenza condivisibili. Io credo che solo una mente comune e comunicante possa biologicamente produrre un probabile modello di vita sostenibile. Lo sviluppo occidentale è altra cosa, ha una matrice fissa, isterica e messaggera di stress e di contrapposizioni devastanti. Tra gli ingranaggi d’acciaio, perennemente in moto, una moneta sarà sbriciolata. La tribologia avrà bisogno di tempo, ma le ruote senza manutenzione, senza lubrificazione, andranno in obsolescenza. La consistenza di un’idea, la sua massa volumica, la sua densità si concretizzano nella comunicazione non verbale. Il suono delle parole muta il significato; è nei silenzi, del gruppo di persone che dialogano, che si fissano le assonanze e le dissonanze, ascoltate o dette. Sentire gli altri parlare mi dà grande fastidio, sentire gli altri fonare, mi rilassa. Cosa mi/ci resta di una pagina appena letta, di uno scritto anche faticoso: la meraviglia, il gusto, il sapore. Non il nome di un personaggio non i suoi patimenti o sbigottimenti, o i suoi pensieri, bensì lo svaporare d’un idea, che non va mai assolutamente condensato. Per lasciare spazio a...     altre altri altro.

Torna su

TORNA A ' IL MIO SITO '

This page is powered by Blogger. Isn't yours?